Di Cristina Bellemo
PRENDERSI CURA, E PRENDERSI A CUORE
Ricordo con precisione il primo incontro: la stanza non molto ampia, la luce al neon, e il tavolo grande, intorno al quale siamo seduti in tanti. Facce, occhi che mi scrutano.
Avevo conosciuto Ludovica Sartore, presidente dell’associazione «Famiglie Adottive dell’Alto Vicentino», grazie a una comune amica, Costanza. E quella sera era l’occasione per conoscere altri componenti del gruppo.
Sento con emozione che sto sulla soglia, desiderosa di affacciarmi a un universo che ho profondo desiderio di raggiungere.
Si parla dell’imminente decimo compleanno dell’associazione, e della volontà di festeggiarlo, tra le altre cose, con un libro.
Sono sempre specialmente felice quando un’istituzione, pubblica o privata, è convinta che, per sottolineare una tappa importante, sia necessario anche un libro.
Lì io sono la penna, e il cuore. Loro sono le storie, e i cuori: cuori giganti e spalancati, abituati a esserlo.
Nei mesi successivi incontro molte persone del gruppo, mamme, soprattutto, ma anche qualche papà, e figli. Persone coraggiose, consapevoli, autentiche e cristalline nell’affidare le loro storie nelle mie mani, fatiche, dolore, gioie disarmanti, quel senso di inadeguatezza, la sorpresa. L’amore. L’amore pervadente, che ci scopre sempre indifesi.
Questa forza che leggo nei loro occhi mi richiama alla mente l’immagine, piccolissima, di mio figlio e me a dirci, stanchi dopo aver affrontato un complicato problema di matematica: «Adesso non abbiamo più paura di niente!».
Io, con la mia penna e i miei fogli che vanno riempiendosi di vite, resto in silenziosa contemplazione, poche domande, pochi interventi, di fronte alla pienezza di umanità, alla potenza narrativa che i loro racconti sprigionano. Qui, esattamente davanti a me.
Loro mi hanno dato completa libertà: posso scrivere nelle tonalità che voglio, nelle forme che sento appartenermi. Con la speranza che possano infine essere messe a disposizione di persone e famiglie (tante, tutte quelle che lo desiderano, vicino e lontano) pagine in cui ritrovarsi, e riconoscersi, e parole attraverso le quali poter sentirsi detti, e potersi dire. Germogli di dialogo.
Nel frattempo ci dimentichiamo la scadenza cronologica del compleanno: ci diciamo che sì, comunque ci sarà sempre l’occasione buona per festeggiare, e che una storia, per nascere, e crescere, e assumere identità e ali, ha bisogno di attesa. Pazienza. Tempo. Tutte dimensioni che somigliano all’aspettare un bambino, aspettare una mamma, un papà, aspettare il formarsi di una famiglia, di qualunque colore e profumo e respiro essa sia.
Voglio ancora incontrare altre persone, fuori dall’associazione. Sentire, provare a capire.
Tutti, tutti questi incontri sono privilegio e dono: piangiamo, e ridiamo insieme, ricordiamo, smettiamo di parlare, ripensiamo, balbettiamo, ci sediamo e ci alziamo in piedi, ci stringiamo le mani, accarezziamo spalle, condividiamo caffè ed emozioni.
Credo di poter dire, senza traccia di presunzione ma piuttosto con sconfinata gratitudine verso la limpidezza di tutte quelle persone, di essermi potuta sentire, in certi momenti, mamma adottiva. E figlia adottiva.
Strada facendo ricerco e incontro anche tanti, tantissimi libri, parole e disegni di altri narratori: succede così, che si lavora a un progetto e si hanno lo sguardo e le orecchie e l’anima sempre protesi, e disposti a rintracciare dovunque fili d’oro che potranno miracolosamente intrecciarsi con la propria, personale tessitura.
E ora eccomi qui, mi siedo alla mia scrivania. Voglio anch’io finalmente trovare il coraggio di incominciare a scrivere una storia. E in questa notte, alla luce fioca della lampada, ho davanti a me tutti questi fogli fitti fitti, solcati, incisi. Vorrei custodire tutto, e riconsegnare tutto, e rinunciare a qualcosa sarà difficile. Ricordi, sguardi, brividi alle schiene, tremolii di dita, immagini così vivide negli occhi da percepirle come esperienze vissute sulla mia propria pelle, tanto da non riuscire a distinguere più. Che cosa è mio? E che importa che sia mio oppure no?
Sono stata dentro a quelle storie senza difendermi, proprio dentro. Ho lasciato che entrassero in me, completamente, e mi attraversassero.
Adesso è il momento di guardare da fuori, di prendermi la giusta distanza per riuscire a vedere con lucidità, staccarmi dal singolo vissuto per dipanare fili narrativi efficaci, capaci di larghezza, ospitalità e pluralità.
Ne nasce allora questo libro strambo. Che raccoglie testi molto diversi tra loro: storie realistiche, fantastiche, di persone e di animali, filastrocche, poesie.
Nella mia idea sono tante sfaccettature, come in un caleidoscopio (parola che nel greco antico da cui proviene ha a che fare con il vedere bellezza), di una storia di adozione, ma più ampie: di una storia del prendersi cura, e del prendersi a cuore.
Quel prenderci cura vicendevole che tutti ci riguarda, tutti proprio, e che ci rende pienamente umani.
In questo senso è un libro aperto a tutti, così vorremo, rivolto dunque anche a coloro che non sono genitori adottivi, e che non sono genitori, ma credono che «i modi della cura danno forma al nostro essere […] Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere» (Luigina Mortari, Filosofia della cura, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 12).
A guidare sul sentiero delle pagine, e a tenere insieme, un filo, lungo il quale ho pazientemente intrecciato dei nodi: sono le parole chiave, quelle ricorrenti, talune sempre, nel narrarsi, e che ho scelto dunque perché più luminosamente di altre, con potenza sintetica e simbolica, restituiscono l’esperienza dell’«adottarsi»: sogno, odore, attesa, bagaglio, viaggio, raggiungersi, domande…
Nodi, come i nodi al fazzoletto per non dimenticare, sono anche, prima di ogni testo, quei frammenti attinti dai dialoghi: fortissimi, talvolta perfino scostanti, ci riportano immediatamente alla concretezza grezza del vissuto, dell’incarnato, dei corpi, del sudore, delle lacrime, delle disperazioni, delle felicità traboccanti.
Per me il libro narra, idealmente, un’unica storia, della quale ci si sofferma ad ascoltare i diversi momenti e movimenti, riconoscendo quante e quanto grandi cose ogni istante sia capace di dirci.
Mi piacerebbe quasi definirlo un romanzo biografico, oltre qualsiasi categoria letteraria, che incomincia ancor prima dell’attesa, nel desiderio non ancora saputo, e arriva fino all’arrivederci, il momento nel quale si decide la propria strada, si sceglie la via sulla quale fiorire alla vita, il modo.
Anche il lettore può decidere come entrare in questo libro: leggere dall’inizio alla fine, scegliere un testo soltanto, cominciare dall’ultimo e tornare indietro, sostare dentro le frasi introduttive…
Il titolo, poi. Fammifamiglia: è una parola magica che ha la musica dentro (me la sono fatta più volte suonare al pianoforte), la musica dell’essere insieme, e del non essere soli, e del sentirsi inclusi, appartenenti, accolti e accoglienti delle più variopinte e arricchenti e trasformative diversità.
I disegni di Gioia Marchegiani dicono con le voci ulteriori di chi ha saputo mettersi in ascolto autentico, suggeriscono altri sguardi necessari, esplorano altri luoghi possibili di questo viaggio. E si colorano di tutta l’intensità e la pronta disponibilità e l’accuratezza che hanno guidato i suoi pennelli.
Scrivendo questo libro, e rileggendolo infinite volte, io sono sicura che sono cambiata: sono nata un’altra volta, e poi cresciuta, nell’attesa, nella pazienza, nel tempo, come figlia, come mamma, come persona chiamata a prendersi cura, e bisognosa di cura.
Prendersi cura, e prendersi a cuore. Ciò che ci fa essere pienamente umani.